THE VOICE
“Intervista al doppiatore Daniele Giuliani la voce italiana di Game of Thrones “
Come e quando ti sei avvicinato al doppiaggio?
Ho iniziato a tre anni, guadagnando 48mila lire. Mia madre era assistente di doppiaggio e mio padre un attore e doppia- tore. All’epoca il mondo del doppiaggio funzionava in maniera diversa: quando servivano dei bambini si chiedeva ai colleghi. Ho continuato fino ai dodici anni, poi mi sono stan- cato e ho abbandonato. I miei mi hanno molto sostenuto, dicendomi che quando non mi fossi più divertito a doppiare avrei potuto smettere. Poi a 24 anni ho accompagnato mio padre a un turno in sala di doppiaggio. Entrando mi sono chiesto come avessi fatto a stare lontano da un posto come quello per tutto quel tempo…
Tu presti la voce a Kit Harington nel Trono di Spade. Segui la serie?
L’ho seguita all’80% . Non sono un enorme appassionato della saga, in realtà. Sono un appassionato di fantasy e leggo molto ma con questa saga mi sono fermato a pagina duecento del primo libro. Non mi ha preso. La serie comun- que è fatta molto bene, è un prodotto che costa 70 milioni a stagione, recitata mediamente bene. È uno straordinario trattato socio-politico, ma non mi ha folgorato.
Quali serie ti hanno invece appassionato?
Devo dire che c’è un prima e dopo Lost. Era una serie innovativa e traumatica.
Traumatica?
Sì, perché scritta molto male, priva di un senso drammaturgico, però il prodotto funzionava. Comunque mi sono appassionato anche a Prison Break e House of Cards.
Nello scorso numero abbiamo intervistato Christian Ian- sante, il quale parlando della diatriba “lingua originale o doppiaggio” mi ha detto che il doppiaggio è un grande tradimento. Che ne pensi?
Concordo con Christian in parte. Premetto che la mia tesi di laurea riguardava la traduzione interculturale (quindi anche il doppiaggio). Io penso che il tranello in cui si cade con questo discorso è pensare che il doppiaggio riguardi esclusivamente te i film americani. Nessuno difende la lingua originale quando si parla di un film tedesco o cinese. È una discussione fine a se stessa, a mio avviso, non si può mettere un paletto che diventi paradigma. Tradurre è fondamentale, la sociologia parla chiaro. Una volta a un festival chiesi alle persone presenti chi avesse letto Guerra e pace e qualcuno alzò la mano. Domandai: “Quindi sapete il russo?”. Risposero di no, allora dissi che in realtà non lo avevano letto, se dovevamo metterla su questo piano. Il doppiaggio può risultare opaco ma non importa il cambiamento di una parola basta, che l’emozione sia mantenuta. Se la sceneggiatura originale di Inside Out fa ridere e quella italiana anche, e l’effetto si vede, dove sta il tradimento? Il fatto che in una battuta si dica “blu” e da noi sia “azzurrino” non è altro che un dettaglio.
Il doppiaggio è un lavoro collettivo ma secondo te qua- li sono le caratteristiche che un buon doppiatore deve avere?
Testa, cuore, palle. Bisogna essere attori, amare ed emozionarsi, trovare l’emozione è l’unico modo per trasmetterla. L’emozione può essere tradotta senza perdere efficacia. Per quanto riguarda un altro discorso sul doppiaggio, quello sulla bella voce, mi sento di citare una frase che mio padre mi ha sempre ripetuto: “La voce è il tubo di scappamento”. Il tubo di scappamento di una Ferrari emette un boato perché il motore è potente. Bisogna lavorare sul motore. Sull’emozione.
Qual è il direttore del doppiaggio che ti ha lasciato un segno indelebile?
Stefano Benassi, per avermi dato una vera occasione con Ugly Betty quando, a 24 anni, ho riscoperto questa passione, e Sandro Acerbo per il Trono di Spade. Mi sono trovato molto bene anche con Carlo Valli lavorando a Inside Out.