TANGO CON IL DIRETTORE

DAGLI ALLENAMENTI IN BRASILE, COL BOTAFOGO, AI VERTICI DEL GIORNALISMO ITALIANO, IVAN ZAZZARONI CELEBRA QUEST’ANNO, DA DIRETTORE, I CENTO ANNI DI VITA DEL CORRIERE DELLO SPORT. E CON L’ESPERIENZA MATURATA IN 45 ANNI DI CARRIERA, SA BENE QUANTO SIA SUPERFLUO DARE CONSIGLI, SE NON UNO, PER QUANDO SERVE DAVVERO.

di STEFANO MANCINI

«Se non mi conoscessi, se mi vedessi con occhi estranei, probabilmente anch’io mi starei sulle scatole, come accade a molte delle persone che mi vedono da fuori.»

Classe 1958, Ivan Zazzaroni cala l’asso proprio al termine dell’intervista. L’affermazione è schietta e diretta, come del resto il personaggio, uno dei volti più noti del giornalismo italiano. E come del resto si comporta nel corso di tutta la conversazione, in cui non mostra tentennamenti nel dire in maniera diretta quello che pensa. L’occasione per intervistarlo sono le celebrazioni per il Corriere dello Sport-Stadio, giornale che Zazzaroni dirige e che festeggia quest’anno il centenario dalla fondazione.

 

Cosa rappresenta per lei questo traguardo?

Non mi sono mai posto la domanda, ma se dovessi rispondere direi che per forza di cose, e soprattutto grazie a Roberto Amodei e Marco Arduini, editore e amministratore, sono diventato il “direttore del secolo”. Più importante di quello che rappresenta per me, però, è ciò che rappresenta per il giornale, lo stesso dove ero già stato in passato, come caporedattore, e a cui sono tornato, in veste di direttore dal 2018, anche se mi ero ripromesso di non rientrare alla carta stampata. E invece eccomi qua.

 

Quali sfide deve affrontare oggi un giornale carico di storia come il Corriere dello Sport?

La nostra sfida è quella di renderlo un quotidiano sempre più autorevole, un obiettivo che perseguiamo a dispetto della concorrenza sleale della grande ladra, ossia la tecnologia che permette a siti, televisione e social network di attingere a piene mani – e in maniera del tutto gratuita – ai nostri contenuti. Noi però non ci lasciamo frenare, ci teniamo a essere diversi. Come direttore faccio quello che ho sempre fatto: le cose per bene e, soprattutto, provo a mettere in pratica l’esperienza acquisita in quarantacinque anni di professione, anche grazie ai grandi maestri che ho avuto, da Cucci ad Adalberto Bortolotti, da Sconcerti a Bartoletti. Amo molto quello che faccio e amo misurarmi su terreni diversi: radio, web, televisione e ovviamente carta stampata.

 

 

Pensando in particolare ai più giovani, che consigli gli darebbe?

Nessuno. Siamo stati tutti giovani, e sappiamo bene che in quella fase della vita si tende a non ascoltare alcun suggerimento. Io non do mai consigli. Quello che dico, invece, è di avere coraggio. Esistono tre elementi, a mio avviso, che permettono di raggiungere gli obiettivi: passione, talento e fortuna. Se li possiedi tutti e tre, arrivi di sicuro; se te ne manca uno, la strada si fa più difficile, ma non vuol dire che tu debba rinunciare. Quello che suggerisco, sempre, è di insistere. Poi ovviamente si deve leggere per poter avere una solida base culturale. Io ho tre figli, uno naturale e due acquisiti, di 34, 25 e 18 anni, e a nessuno di loro do consigli. Quello che facciamo, invece, è di confrontarci, così da permettergli di seguire le loro strade con la massima serenità.

 

Quindi proprio nessun consiglio?

Se proprio devo, allora uno piccolo lo do: secondo me, in certe occasioni, è importante saper mentire bene. Mi spiego: ci può stare, ad esempio quando si compila un curriculum o si sostiene un colloquio, di fornire qualche piccola bugia, ma bisogna essere credibili. Poi sia chiaro, non amo chi mente e lo fa in maniera spudorata, però in certe circostanze bisogna sapersi vendere bene. Come direttore del Corriere dello Sport, per esempio, ricevo molti curricula. Apprezzo che siano sintetici e che contengano elementi concreti, anche se magari “eccessivi”. E proprio per questo rispondo sempre a tutti, una cosa di cui molti si stupiscono, ma che a me sembra naturale. Non rispondere lo trovo terribilmente maleducato.

 

Ci sono delle sfide particolari che ha dovuto affrontare?

Stavo per andare alla Gazzetta dello Sport, nel 1981, voluto da Gino Palumbo. Era tutto fatto, ma all’ultimo rifiutai per restare nella mia Bologna, con i miei amici. Per me la Gazzetta era un foglio straniero, il mio giornale era Stadio. Feci una scelta forte, per quei tempi, e comunque dalla Gazzetta arrivò Gianni Cancellieri che mi prese ad Autosprint, anche se non sapevo niente di automobili. Nel giro di tre mesi ero inviato in Finlandia. Personalmente, invece, la sfida che mi ha divertito e dato più di tutte è stata accettare di partecipare a Ballando con le stelle. Era un programma che spopolava sulle tv britanniche e Ballandi e Milly mi chiesero di prendervi parte come concorrente. Rifiutai e il primo anno feci il giurato. L’anno successivo, invece, decisi di mettermi in gioco e provare a fare qualcosa che era lontanissima non solo dal mio ambito professionale, ma anche dal mio carattere. Ballai davanti a 5 milioni di italiani vestito anche da torero e lo feci bene, perché ci misi il cento per cento dell’impegno. Quella partecipazione mi ha dato immagine e popolarità, tanto che più tardi scoprii di aver lavorato sul mio “branding”. Ripensandoci forse è vero, anche se è venuto tutto per caso.

 

Quindi possiamo dire che ha avuto coraggio e si è buttato?

Possiamo dirlo, sì. Se ci si vuole buttare, però, va fatto col paracadute, dopo aver capito se è una cosa che si può fare o no; se si vuole provare qualcosa di nuovo, allora l’unica strada è farlo mettendoci tutto se stesso.

 

Come quando da giovane giocava a calcio. Sognava di fare il calciatore?

No, tutt’altro. Giocavo a buoni livelli, e sono arrivato ad allenarmi in Brasile col Botafogo e per una settimana col Manchester United di Bryan Robson, Olsen e Muhren. Ma la Serie C e la Serie D di allora non erano appetibili. Io amavo il calcio e amavo farlo, ma non avrei potuto fare il calciatore. Però anche quell’esperienza mi è servita, perché ho appreso le dinamiche interne dello spogliatoio, la capacità di parlare coi compagni, i calciatori e con gli allenatori e l’ho portata con me quando ho cominciato a fare il giornalista. Probabilmente è per questo che nel corso della mia carriera ho sempre avuto estrema facilità a confrontarmi con gli sportivi, perché mi vedevano come qualcuno di simile a loro.

 

Qual è stato – se c’è stato – un errore commesso da giornalista?

Mi porto dietro l’errore di aver sottovalutato il web, con le “porcate” che è in grado di produrre e trasmettere, come nel caso dell’incidente con Siniša Mihajlović, cinque anni fa. Eravamo grandi amici, l’avevo portato io al Bologna la prima volta, ma quando venne fuori la storia della sua malattia pubblicai 20 righe di incoraggiamento in prima, peraltro senza far riferimento alla leucemia. Lui si arrabbiò con me, senza aver neppure letto l’articolo, e comunicò in conferenza stampa che avevo rovinato – per uno scoop – un’amicizia di vent’anni. Quando poi scoprì la verità, mi scrisse in privato, mandandomi dei cuori. Ma ormai la “shitstorm” era partita. Provai un dolore indescrivibile, ma rispettai la sua terribile condizione. Ci ritrovammo perché, come mi disse “Sini”, «non abbiamo più il tempo di fare nuove amicizie, meglio tenerci quelle vecchie». Non dimenticherò mai l’ultima volta che lo vidi sul letto d’ospedale.

Il web è così, non puoi anticiparlo, né prevederlo o gestire le reazioni della rete che vive di falsità. C’è tanta gente arrabbiata e frustrata, e capisco che preferiscano prendersela con qualcuno. Ho abbandonato i social e vivo magnificamente. L’insulto oggi è una medaglia: sono un bersaglio ideale, avendo diretto giornali, essendo conosciuto e avendo ancora… tutti i capelli.

 

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