Esistenze on-demand: l’invisibilità sociale delle sex workers
L’emergenza Covid ha evidenziato criticità del nostro sistema socioeconomico tra cui la condizione di lavoratori “invisibili” come le sex-worker.
Rilievi degli ultimi anni contano 90 mila operatrici del sesso in Italia, 3 milioni di clienti e un fatturato annuo di circa 3,9 miliardi di euro. Il 10 per cento delle prostitute risulta minorenne e il 55 per cento è rappresentato da ragazze straniere, spesso prive di permesso di soggiorno. Durante il lockdown l’assenza di riconoscimento e tutela, sommato al prevalente controllo da parte della criminalità, ha comportato per queste persone un grave rischio di povertà, abbandono e marginalizzazione. Uno scenario che evidenzia il pericolo di nascondere la polvere sotto il tappeto quando in gioco ci sono vite umane.
La crisi destruttura i vecchi equilibri non tanto generando nuovi problemi ma esasperando e rendendo manifesti quelli già esistenti.
Il 20 febbraio del 1958 le “case di tolleranza” vennero proibite con l’entrata in vigore della legge Merlin dal titolo: “Abolizione della regolamentazione della prostituzione e lotta contro lo sfruttamento della prostituzione altrui”. Un modello abolizionista in cui la prostituzione resta consentita mentre lo sfruttamento, l’induzione e il favoreggiamento sono puniti. La “deregolamentazione” non prevede di fatto una valida alternativa alle case chiuse e le sex workers sono così consegnate a un sistema criminale e privo di scrupoli. Ciò le ha rese socialmente invisibili, corpi che sembrano materializzarsi per le fantasie del cliente per poi svanire nella negazione e nell’indicibile.
In un’intervista a Oriana Fallaci la stessa Lina Merlin dichiarò di non aver mai pensato di poter abolire la prostituzione ma solo la “complicità dello stato”.
Già per Greci e Romani la prostituzione era una professione riconosciuta e tassata ma va detto che questa riguardava schiave, liberte o cittadine relegate alla condizione di infamia. In genere sfruttate fino a intaccarne la salute e la vita. Anche in paesi dove oggi è regolamentata, tra cui Germania, Olanda, Spagna e Grecia, permangono fenomeni criminali e di “tratta delle schiave”. In Italia una prostituzione volontaria, svincolata dagli ambienti dello sfruttamento, resta una realtà parallela, non facilmente distinguibile da parte del cliente. Alla moderna emancipazione del sesso dalle colpevolizzazioni del passato si contrappone il persistere di una rappresentazione svalutante e stigmatizzante delle sex workers. Nelle testimonianze che raccolgo come sessuologo ricorre il disprezzo verso la prostituta in quanto donna disposta a vendere il proprio corpo e la sua depersonalizzazione come oggetto destinato a un fugace utilizzo. Alcuni descrivono tuttavia un rapporto amichevole e rispettoso con le prostitute, qualcuno persino un certo investimento romantico. Viene in mente “Il cielo in una stanza” di Gino Paoli, brano pubblicato nel 1960, a due anni dalla legge Merlin. La delicatezza e l’intensità poetica del testo racconta in effetti l’esperienza dell’autore in una casa chiusa di Genova. L’autore conferma con schiettezza come il brano descriva nient’altro che l’orgasmo vissuto con una professionista: “Era per una puttana della quale mi ero innamorato, perché a quei tempi le ragazze non te la davano”. Le case di tolleranza sono state anche questo, un passaggio iniziatico quando il sesso non era comunemente accessibile come lo è oggi. La prostituzione è in fondo il prodotto delle barriere sessuali esistenti in una determinata cultura e società. Si dice che nella popolazione eschimese degli Inuit, caratterizzata da scambi sessuali tradizionalmente facili e frequenti, la prostituzione non esistesse; sarebbe probabilmente stato come “vendere il ghiaccio al polo nord”.
Ogni fenomeno va contestualizzato nella cultura della quale è il riflesso. Se il mondo delle sex workers esiste come realtà di sfruttamento, violenza e degrado dovremmo interrogarci sul perché nella nostra società la commercializzazione del sesso assuma necessariamente questa forma. Ciò rivela probabilmente una sottostante ambivalenza culturale verso il sesso e il femminile sessuato. Le sex workers divengono il capro espiatorio per offendere e censurare l’immagine di una donna sessualmente disinibita, non a caso comunemente assimilata alla prostituta attraverso i molteplici appellativi volgari disponibili.
Servizi professionali in ambito sessuale assumono particolare significato e rilevanza sociale per quegli individui che non hanno altra possibilità di accesso all’intimità con un’altra persona. Pensiamo al tema dell’assistenza sessuale per disabili, oggi promossa da iniziative scientificamente fondate, associabili a un impegno sociale più che a finalità di lucro.
Un cambiamento dell’attuale situazione appare necessario e si torna a parlare di regolamentare la prostituzione. La pensabilità di questa soluzione non dovrebbe prescindere dall’applicabilità di effettive garanzie di tutela. Sarebbe inoltre auspicabile un più complesso intervento di sensibilizzazione e cambiamento culturale per porre a solido fondamento la dignità di uno scambio tra adulti realmente liberi e consenzienti.