Enrico Vanzina: dal panettone agli spaghetti
Titolo irriverente? Niente affatto: le pellicole della “ditta” Vanzina, volenti o nolenti, ci hanno messi tutti davanti ad uno specchio impietoso; ci siam dovuti deridere e compatire osservando i nostri tic, le nostre paure e la nostra goffaggine. L’Italia e gli italiani senza filtri e – anche – senza pietà, schiacciati su uno schermo lungo quarant’anni. L’Italia diretta dal compianto Carlo e “scritta” da Enrico. C’è altro? Eccome: ne parliamo con lui.
I luoghi comuni sono sempre vivi e vegeti. Ci si nuota, ci si sguazza più o meno inconsapevolmente; onnipresenti come i semafori, inevitabili come lo squillo della sveglia al mattino. Tra i più gettonati c’è quello che recita: “Beh, facile, quello è il figlio di…”. E se i figli sono due? Una pacchia vera e propria per chi sguazza in tali acque.
I “figli” di cui parliamo sono Enrico e Carlo Vanzina; paternità: Steno, al secolo Stefano Vanzina. Ed ecco il ragionamento semplice semplice: Steno fa cinema? I figli prima o poi lo seguiranno, hanno la strada spianata, beati loro…
Le cose non stanno così, ce ne accorgiamo smettendo un momento, un momento solo, di “nuotare”. E ce ne accorgiamo, anche, chiacchierando con Enrico Vanzina, figlio di Steno e fratello, ahinoi, del compianto Carlo (scomparso lo scorso luglio).
Regista, sceneggiatore, giornalista e… figlio d’arte; il che significa, per alcuni, avere il futuro “già pronto”. Come si emerge all’ombra di un padre ingombrante? È più facile o più difficile? Parliamo delle paure e le incertezze del giovane Enrico.
“Hai dimenticato di dire scrittore…! Ma fa niente, lo dico io. Il “giovane Enrico”, come dici tu, non aveva né paure e né incertezze; quanto meno non più di tanti altri coetanei.
Il giovane Enrico si laureò con 110, fece un master (allora nessuno sapeva cos’erano), scriveva, suonava il piano e lo suonava abbastanza bene. Il giovane Enrico voleva fare il pianista. Si accorse presto, però, che il piano lo avrebbe portato ad essere un musicista tra tanti, magari il numero tremila…
Il giovane Enrico amava leggere e viaggiare; gli piaceva la spensieratezza e il sano cazzeggio pur ben sapendo che qualunque strada, va preparata studiando, facendosi il mazzo.
Il giovane Enrico voleva tenersi lontano dal cinema ma aveva un fratello più matto di lui che la pensava diversamente e che lo trascinò in quel mondo. Un mondo nel quale eravamo immersi, nel bene e nel male, circondati da mostri sacri come Monicelli, Risi, Lattuada… il cinema era dentro di noi, ci avvolgeva con i suoi grandi titoli e i suoi grandi nomi. I giovani Enrico e Carlo volevano fare un cinema “proprio”, che portasse la loro firma, le loro idee. Insomma volevamo farci conoscere e riconoscere. Primo passo: guardarsi intorno, guardare gli altri. Osservare le loro mosse, i loro tic, come parlano, come si muovono… A seguire: le classi sociali, gli arrampicatori, i soliti “lei non sa chi sono io” e i “vorrei ma non posso”. Insomma le macchiette che ci circondano, l’Italia che ride e si deride in una commedia interminabile che scorre, ogni giorno, davanti allo specchio. Noi guardavamo quello specchio, lo guardo ancora. Lì ci sono io, ci siamo noi, la nostra storia; la nostra grandezza e le nostre piccolezze, le nostre risate e i nostri pianti… Con questo sguardo sincero, allegro, senza troppe angosce, abbiamo raccontato i costumi italici nell’arco di quarant’anni”.
Così nascono gli infiniti personaggi della “galleria” Vanzina: il pariolino borioso (non necessariamente romano), la contessa, il “coatto” invadente, la bellona ingenua ma non troppo che si muovono tra le nevi di Cortina o le spiagge “vipparole” della Versilia. Ancora: la gran signora che si ostina a sentirsi “under 25”, il professionista che deve “timbrare” tutte le segretarie, lo yuppie improvvisato, il “piacione” che saluta tutti e nessuno lo conosce…
Giusto quest’anno, giusto in questo dicembre “Vacanze di Natale”, il primo, l’originale, compie 35 anni. Eravamo nel 1983, gli anni della “Milano da bere” quando si diceva – ci dicevamo – che l’Italia era una locomotiva e che tutti potevamo e dovevamo sfondare. I mitici Ottanta da consumare freneticamente: consumare amori, consumare soldi, consumare illusioni. In quel film appariva un Claudio Amendola imberbe, un Christian De Sica altrettanto “bambino”, poi la povera Karina Huff (scomparsa due anni fa), Mario Brega (andato via anche lui da tempo) e tanti altri.
I “tanti altri” siamo ed eravamo noi: in sala, di fronte allo schermo o, meglio, davanti allo specchio.
Qualcuno li chiamò “Cinepanettoni”. Offensivo? L’intenzione forse era quella, ma non ebbe seguito: il panettone lo mangiamo e lo mangeremo tutti, non si scappa. Può essere dolce ma anche amaro. Perché in quel vassoio, prima o poi, ci caschiamo.
Da giovani si naviga nell’indecisione, si cambia idea un giorno sì e l’altro pure. Hai cominciato come regista e ti sei affermato sceneggiatore. Com’è andata? E che consiglio daresti ai giovani indecisi di oggi?
“Per la verità io il cinema l’ho sempre… “scritto”. Consigli? Chi vuol fare cinema sappia che è un po’ come il calcio: puoi emergere, riempire gli stadi e vincere il Mondiale oppure restare nelle categorie inferiori per sempre, inseguendo il pallone nei campetti di periferia. Non c’entra la fortuna e men che meno essere “figlio di”. Se vedi che quelli più bravi di te sono tanti, troppi, lascia perdere. In ogni caso si deve studiare e fare tanta gavetta. E quando “sfondi” basta sbagliare due film e sei di nuovo fuori. Tutto qui il cinema: adrenalina e sofferenza”.
La tua prima sceneggiatura per un film diretto da Carlo è del 1976. Da allora la “ditta Vanzina” ha sfornato una carrellata infinita di successi. C’è chi dice che i fratelli non possono lavorare insieme: troppi conflitti irrisolti dall’infanzia, si è tanto vicini quanto lontani… Voi come avete fatto?
“Che dire? Di altre famiglie non so, io sono stato fratello di Carlo non di altri. Sarà stata anche l’educazione che abbiamo avuto, sarà stato chissà cos’altro… Ho imparato da lui e lui da me. Ci siamo parlati e, soprattutto, abbiamo imparato ad ascoltarci. Essere fratelli è anche avere un vissuto comune, un’intesa istantanea; non solo rancori d’infanzia”.
Sceneggiatore e poi, con Video 80, produttore. Insolito anche questo, poiché si pensa che l’artista, lo scrittore, il regista non parla la stessa lingua della produzione, non si vuole… sporcare. Tu invece sei riuscito a sposare l’arte con l’imprenditoria…
“È stata anche una scelta – come dire? – difensiva: i produttori mettono in ogni film la metà dei soldi che servono, quando va bene. Producendoci da soli potevamo mettere le somme che volevamo. E poi smettiamola con i luoghi comuni: il cinema è arte ma è soprattutto industria. Non basta la pellicola “bella”; deve anche essere vendibile”.
Il pubblico del nostro magazine è fatto di giovani e giovanissimi cresciuti spesso nell’idea del “tutto e subito” e che temono il sacrificio, la gavetta. Raccontaci un episodio nel quale dovesti tirar fuori tanto coraggio.
“È successo tante volte. Per esempio quando mio fratello è stato male: non volevo mostrargli la mia debolezza, la mia fragilità; e c’è voluto coraggio”.
Cosa sogna di fare da grande Enrico Vanzina?
“Ho sceneggiato 100 film, ho scritto tanti libri, ho fatto il fotografo, il pianista, ho viaggiato, sono stato ricco e povero… Sarei matto ad avere ancora un sogno nel cassetto. Ma se il cassetto lo apro bene qualcosa c’è: non ho mai fatto uno “spaghetti western”, mi piacerebbe rilanciare quel filone. Perché, in fin dei conti, il vero cinema è il western”.
L’intervista finisce qui; siam partiti dal panettone per arrivare agli spaghetti. Non siamo in cucina e nemmeno al ristorante: siamo in casa Vanzina e lo spettacolo continua.