Paura, tristezza, speranza, sorpresa, euforia, inquietudine: sono queste le emozioni che attraversano ogni giorno la vita dei giovani, proprio come accade agli adulti. A differenza dei più grandi, però, la realtà dei ragazzi è principalmente costellata da sogni che rappresentano il motore di ogni gesto che compiono. Diventare adulti, troppo spesso, comporta dimenticare cosa significa fantasticare sulle mille opportunità che la vita può regalarci. E allora vogliamo dedicare questa rubrica proprio a coloro che continuano a sognare, per ricordarvi che non è mai troppo tardi per sperare, perché nulla può impedirvi di raggiungere il vostro obiettivo.
Intervista ad Andrea Fiorespino
La tua carta d’identità.
Andrea Fiorespino, 21 anni, nato e cresciuto a Roma, studente presso la facoltà di Scienze Politiche alla Luiss. Sono uno sportivo e, da sei anni, sono entrato nel mondo del pugilato.
Cosa ti ha spinto a salire sul ring, scelta non tra le più comuni?
Giocavo a tennis da molti anni, ma era uno sport che non mi regalava grandi soddisfazioni. Ho sempre visto la boxe come un gioco di potenza e di forza, complice il messaggio comunicato dai film di Rocky visti da piccolo. Pur non scommettendo nulla su di me, che sono sempre stato mingherlino di corporatura, ho deciso di tentare.
Che ricordi hai del tuo esordio?
Dell’incontro ricordo poco! Ero nervosissimo: mi dovevo sfidare contro un ragazzo che aveva già diverse vittorie alle spalle e ho perso. Nonostante ciò, il mio allenatore si è complimentato con me per come avevo reagito alla difficoltà iniziale di rompere il ghiaccio. Per vincere c’era tempo.
Cosa provi quando indossi i guantoni?
Al suono della campana sai che, comunque vada, devi cavartela da solo. Nel momento in cui le luci si spengono, tutta la realtà intorno a te sembra ovattata e le tue percezioni si fondono con quelle dell’avversario. La gestione delle emozioni è stata una delle prime difficoltà che ho dovuto superare: devi capire che la paura è umana e anche il tuo sfidante ce l’ha. Sul ring c’è sempre grande rispetto. Il terrore delle madri che temono che i propri figli possano farsi molto male è immotivato: c’è una cattiveria agonistica, ma non l’odio. Chi fa boxe solo per sfogare la rabbia raramente prosegue.
Qual è il tuo sogno nel cassetto?
Mi piacerebbe vincere qualche titolo. Quando ho iniziato mai avrei potuto immaginare di arrivare a disputare 17 incontri, di insegnare la boxe ad altri e di essere l’unico della mia palestra a combattere. Ancora non ho capito fin dove posso spingermi e voglio scoprirlo.
Secondo te, quali sono le virtù di un vincente?
L’umiltà. Dalla boxe ho imparato che sul ring, come nella vita, è importante la voglia di migliorarsi, seppur con la consapevolezza delle proprie capacità, senza cui altrimenti sarebbe difficile affrontare la tensione. E poi la tenacia: la voglia di vincere e la sicurezza di essersi impegnati per arrivare fin lì e di meritarselo. Tutto è alla portata di tutti. Se c’è impegno e costanza i risultati arrivano.
A che training di allenamento ti sottoponi?
Mi alleno sei giorni alla settimana e, se posso, anche la domenica. L’allenamento prevede tanta preparazione atletica, mentre la parte tecnica si intensifica in prossimità dell’incontro. Le sessioni non sono mai sfiancanti: un training ben fatto dura circa un’ora e mezza. Per quanto riguarda la gestione della pressione emotiva, serve una preparazione solida e, in questo, credo di avere uno dei migliori allenatori: Dejan Zivkovic, che insegna alla palestra Pesi Massimi nel quartiere Trieste-Africano. E poi c’è mio padre che, anche in vacanza, mi aiuta a tenermi sempre in forma.
Come affronti i tuoi limiti?
Non mi preoccupano più. Ho imparato che i limiti conviene sempre impegnarsi a superarli.