UNA PISTA CHE SEMBRA NON FINIRE MAI, FATTA D’ASFALTO, DI SOGNI, DI PROGETTI E IDEE CHE HANNO FATTO LA STORIA RECENTE DEL BELPAESE. È LA PISTA SULLA QUALE HA GAREGGIATO – E GAREGGIA TUTTORA – LUCA CORDERO DI MONTEZEMOLO. SORPASSARE, TAMPINARE, FRENARE E RIPARTIRE. UNA VITA IN PISTA; MEGLIO: LA VITA COME UNA PISTA. PUOI VINCERE O PERDERE, PUOI STARE IN “POLE” O IN QUARTA FILA… L’IMPORTANTE È GAREGGIARE, METTERSI IN GIOCO.
Ci sono uomini che sembrano incapaci di “leggere” il tempo. Leggerlo per rendersi conto che un giorno ha ventiquattr’ore, solo ventiquattro. Un mese può avere al massimo trentuno giorni, e l’anno, gli anni, non concedono mai il bis.
Uomini e donne capaci di “inventare” la venticinquesima ora e il tredicesimo mese. Solo così si spiega la capacità di costoro di fare e disfare, costruire e ricostruire, volare a New York e presenziare, cinque minuti dopo, in un convegno a Milano. Poi ci sono gli altri; noi, per esempio. noi che, con il tempo, lottiamo ogni giorno e rimaniamo indietro.
Ci sono uomini e donne che il calendario non lo guardano, riescono ad allungare gli anni, gonfiare le ore. Così lavorano il doppio, il triplo ed hanno il tempo – lo trovano– per andare avanti con le idee, le sfide, senza temere le curve, i dossi, l’asfalto bagnato. Mettersi e rimettersi in pista, questo è tutto.
Abbiamo incontrato uno di loro il 27 marzo; si chiama Luca Cordero di Montezemolo. No, non è un superuomo: anche lui ha le sue debolezze, anche lui ha “bucato” qualche corsa. Non siamo qui a scrivere un’agiografia. Tuttavia, volendo dare un’occhiata al calendario del dottor Montezemolo, non si finisce di stupirsi: gli anni, i mesi, i giorni sono uguali ai nostri, certo. Ma tra quelle pagine, chissà come, lui ha messo di tutto e di più.
C’è la Ferrari, la Fiat, Confindustria, le corse di rally, l’Alitalia, la Fieg; ancora: Maserati, Italia 90, la Luiss, Italo, Unicredit, Cinzano, Rcs…Presidente, AD, direttore generale, consigliere: si è dato da fare ovunque, nel privato e nel pubblico. Insuperabile? infallibile? L’abbiamo già detto: qui parliamo di uomini, punto. Anzi: lasciamo parlare loro.
Ci parli del “Drake”: come vi siete conosciuti? È stato un incontro fortuito? Come è riuscito, poi, a conquistare la sua stima?
“È stato del tutto casuale: a quei tempi praticavo il rally, siamo nei primi Anni 70. Partecipai ad una trasmissione radiofonica, “Chiama Roma 3131”; una trasmissione di successo del solito Gianni Boncompagni. Quel giorno chiamò un ragazzo per esprimere il suo disprezzo nei confronti delle corse automobilistiche, Formula 1 in primis. Disse che l’automobilismo è uno sport “da ricchi”,
elitario, fatto su misura per i figli di papà. Io mi accalorai, gli risposi che era del tutto fuori strada, che ci sono decine di piloti figli di meccanici e non di petrolieri; gli dissi poi che la tecnologia per le auto da corsa prima o poi “passa” alle auto di tutti. Insomma lo misi “a cuccia”. Enzo Ferrari ascoltò, telefonò in diretta e mi chiese di andarlo a trovare”.
Siamo nel 1973. Andò a Maranello a fargli da assistente; poi il responsabile della Squadra corse: erano gli anni di Niki Lauda, gli anni che portarono a Maranello tre Mondiali Costruttori e due Mondiali Piloti. Lascerà il Cavallino (e il Gruppo Fiat) per rientravi nel ’91 in qualità di presidente (fino al 2014). Lauda è nei libri di storia, siamo nell’era Schumacher. Nel frattempo Italia 90, Rcs, Confindustria, Cinzano… Torniamo un attimo sulla terra: ci parli dei momenti di difficoltà, di quando ha visto la luce spegnersi. Come ne è uscito?
“Ho dovuto lottare contro le gelosie, le invidie da parte di tante persone. Il “Drake” diceva sempre che “Gli italiani ti perdonano tutto ma non il successo”. Uscito dalla Ferrari mi chiamò Gianni Agnelli; conoscevo la famiglia, Cristiano Rattazzi (figlio di Susanna Agnelli, sorella dell’”Avvocato”, NdR) correva il rally con me sulla mitica “500” Giannini. Agnelli mi insegnò che non basta la migliore macchina del mondo per vincere nella vita. Sei tu che la guidi, sei tu che devi arrivare al traguardo”.
Veniamo all’avvocato Montezemolo: la sua laurea in Giurisprudenza ha influito o no nel raggiungimento dei suoi obiettivi?
“Dopo la laurea (110 e lode) ho frequentato la Columbia University di New York, Diritto Internazionale. La laurea è importante, ma ancor più importante è viaggiare. L’esperienza americana mi ha aperto gli occhi; e la testa. Mai restare sullo stesso pianerottolo: bisogna uscire, conoscere, cambiare prospettiva. E sognare. I miei genitori si lamentavano che “giocassi” con le macchine invece di occuparmi di faccende serie. Beh, le auto per me sono state importanti; e serie. Mi hanno dato da vivere, mi hanno fatto crescere senza smettere di sognare”.
Ha conosciuto e frequentato personaggi che hanno fatto la storia del nostro Paese. Chi le ha insegnato qualcosa di prezioso? Di più: crede di aver avuto un mentore?
“Ogni giorno c’è da imparare. Ogni giorno il mondo cambia, va velocissimo e bisogna riuscire a stargli dietro. Correre da soli? Beh, appoggiarsi a qualcuno si può, avere un riferimento, un esempio da seguire. Persone da cui imparare ma mai, almeno per me, da copiare senza se e senza ma. Da Enzo Ferrari ho imparato a tenere duro, a pretendere il massimo dai collaboratori. Agnelli, invece, mi ha insegnato a guardare il mondo non solo da una prospettiva “italiana”. Ripeto ancora: uscire dall’orticello, dal pianerottolo.
Abbandonare il nido per accorgersi che il mondo non è tutto come ce lo propinano i giornali. È molto più grande, molto più vario. Ciò non toglie che Agnelli è stato forse uno dei migliori ambasciatori d’Italia che abbiamo avuto: amava profondamente il suo Paese, ne detestava i denigratori. Ma sapeva lasciarlo, sapeva guardare oltre, conosceva la curiosità. Curiosità: è stata “lei” a guidarmi nel lavoro e nelle scelte imprenditoriali. Curiosità, stile, comunicazione. Quando entrai in Ferrari trovai tanti ingegneri e poco marketing; distribuii a tutti Vogue, Vanity Fair e altri magazines del genere. Parola d’ordine: leggere, guardare, scovare i dettagli, il bello; l’emozione. Chiamai Renzo Piano ed altri architetti per reinventare le forme dello stabilimento. Niente lusso, semplicemente innovazione: qui si fa la Ferrari; qui gli operai hanno i guanti bianchi. Maranello – lo scrisse il Financial Times – è “il miglior posto in cui lavorare”: approccio ecologico, luce, spazio, dettaglio. Ho conosciuto poi Michele Ferrero, fondatore dell’omonimo impero che ha cominciato con una pasticceria ad Alba. Poi Ralph Lauren, partito con una bancarella di cravatte a New York. Uomini, certo, non supereroi. Ma si tratta, indubbiamente, di persone capaci di non mollare; ostinate, creative. Curiose”.
La sua più grande soddisfazione; imprenditoriale o…
“Le soddisfazioni imprenditoriali sono almeno due. Una si chiama Ferrari: quando l’ho lasciata aveva un fatturato dieci volte superiore rispetto al giorno che vi entrai. Sergio Marchionne una volta mi disse: “L’hai gestita, l’hai coccolata come se fosse tua e solo tua”. L’altra è Italo, il treno che ha cambiato per sempre l’Italia dei treni. Far nascere dall’oggi al domani un’azienda che trasporta venti milioni di passeggeri dando il via per primi in Europa all’Alta Velocità non è stato malaccio. Un’idea azzardata, una scommessa da visionari. Quando ne parlai con Diego Della Valle questi mi chiese se avevo bevuto, si mise quasi a ridere: “Ma che diavolo c’entro, che diavolo c’entriamo noi con i treni?”. Poi siamo entrati e abbiamo fatto partire l’Alta Velocità senza un euro “pubblico”. Nacque così la concorrenza sui binari, i treni – tutti – migliorarono, l’Italia si rimise in viaggio più comoda, più veloce, più pulita. Perché l’Italia sembra fatta apposta per il treno; e il treno deve diventare confortevole, disponibile, accogliente. Milleduecento dipendenti a tempo indeterminato; questo è oggi Italo: persone reclutate nei migliori alberghi, nei villaggi vacanze, nelle navi da crociera. L’Italia, con noi, ha cominciato a viaggiare con stile. Potrei parlare poi di Acqua di Parma: comprammo il brand e lo rilanciammo, andando personalmente nelle grandi profumerie di Roma, Londra, Milano…
Eccole, le soddisfazioni: credere in qualcosa, portare avanti un progetto alla faccia di chi è scettico e di chi, puntualmente, ti mette in guardia: lascia stare, fermati, potresti pentirtene… Ma non tutto si parametra con i fatturati, i bilanci, le esclusive, la concorrenza da sfidare e surclassare. C’è anche il fattore umano, i traguardi da tagliare insieme. Insieme a chi sta peggio di noi, insieme a chi – se aiutato – può vincere come e più di qualunque campione. A tutto questo provo a contribuire con la Fondazione Telethon, che presiedo ormai da dieci anni. Una sfida anche questa; una sfida cui tengo tantissimo”.
Siamo di passaggio su questo pianeta. Andando via temiamo (chi più chi meno) di essere dimenticati, di finire nell’oblìo. Lei i libri di storia, in un certo qual modo, li ha già “nutriti” con qualche capitolo. Domanda: quale senso riesce a dare alla sua quotidianità nella consapevolezza che viviamo un soggiorno… a termine? E cosa vorrebbe lasciar scritto sul “libro Montezemolo”?
“Ragazzi qui bisogna toccarsi, diamine (Ride, NdR)! A parte gli scherzi: una volta mi chiesero di collaborare alla stesura di un libro su di me; ho rifiutato, rifiuterei ancora. Le tracce da lasciare? Beh, spero che tutto quel che ho fatto, nel mio piccolo, serva da stimolo nei giovani. Stimolo per credere nei sogni e soprattutto per darsi da fare e non fermarsi al “già visto”. Qui a Roma mi accorgo con rammarico che ragazzi e ragazze sono poco curiosi, spesso anche poco grintosi. Ho l’impressione che molti romani siano convinti che il mondo sia tutto qui. Ebbene uscite, viaggiate, datevi da fare. Scoprirete che altrove nessuno sa quel che ha detto Salvini a Di Maio e che, nonostante ciò, c’è chi inventa un prodotto, chi scommette su una start-up, chi costruisce idee per cambiare il proprio futuro e quello degli altri. Succede spesso e volentieri anche in Italia; spesso lontano da Roma. E dai Palazzi”. L’intervista finisce qui, perché non c’è più spazio e non c’è più tempo. Perché noi il calendario e l’orologio non li sappiamo tenere a bada. Speriamo, prima o poi, di diventarne capaci. Un sistema ci dev’essere; probabilmente una formula.
La chiameremo così: Formula Luca