“Show must go on”
Uscire di casa ed essere chiamati per nome, all’unisono, dalla vecchietta sconosciuta e da suo nipote. Bello no? Ti salutano, ti chiedono un sorriso e tu, per compiacerli, fingi di conoscerli da sempre. È lo “schema”, neanche troppo complesso, che regola la vita dei cosiddetti Vip: coloro che, vivendo sotto i riflettori, hanno reso famoso il loro volto. “Metterci la faccia”, si dice; e loro, le pop-star, ce la mettono sempre. Errata corrige: quasi sempre….
Di Roberto Fantauzzi
Far parte dello show-business, essere un super eroe (vero o immaginario) è un desiderio che chiunque, anche per un secondo, ha provato da bambino. Ricordo che anch’io sognavo di diventare un mix tra Holly e Benji, gli adolescenti campioni di calcio dei cartoni giapponesi per poi capire, molto presto, che col pallone tra i piedi o tra le mani sarei potuto diventare al massimo un mix tra Stanlio e Ollio (forse più celebri ma, ahimè, due figure che nessun teen-ager ambiva ad emulare). Ma questa è un’altra storia…
Essere famosi, sapere che in ogni dove c’è tanta gente che tenta di imitarti, non è un fatto esclusivamente positivo. Ce lo dice la storia; e ce lo dice, purtroppo, anche la cronaca.
Se fossi un artista all’inizio della mia ascesa mi chiederei: ce la metto o non ce la metto, la faccia? Se ce la metto devo stare attento; devo avere le spalle forti. La mia faccia, la mia intimità in balia delle folle. La mia storia, i miei ricordi, i miei passi falsi a disposizione di chiunque 24/24.
Un cantante, un Dj, un uomo – o una donna – cui impediscono di… spegnere la luce per rifugiarsi, almeno un minuto, in un suo angolo nascosto. È la vita (e talvolta la morte, ahinoi) di chi calca le scene.
Mostrarsi o mascherarsi. Metterci la faccia o indossare una maschera. Maschera non in senso metaforico, attenzione: maschera concreta che ti copre i lineamenti e che ti consente di salire e scendere dal palcoscenico – con il pubblico in delirio – senza far sapere, a nessuno, di che colore sono i tuoi occhi, i tuoi capelli. Non sanno chi sei né da dove vieni; non sanno dove vorresti andare. Sanno solo quello che fai e, se lo fai bene, ti verranno garantiti stadi e teatri pieni (o milioni di “click” in Rete).
Oppure? Oppure “smascherarsi”; metterci la faccia, ci risiamo.
“Getta la maschera” è un imperativo, un’espressione che nella nostra lingua esprime un chiaro invito che si rivolge a chi cerca di nascondere le sue vere intenzioni. Insomma non fingere, non confonderti tra la folla, dicci chi sei per davvero…
Una maschera, però, non nasconde solo le “bugie”: Può servire (ed essere talvolta indispensabile) per proteggere il volto, l’identità, l’interezza degli sguardi e con essi le paure e le insicurezze.
Di che si parla? Di cosa parlo? In parte l’avrete già capito. Parlo dello show-business, parlo di quegli uomini e quelle donne talvolta schiacciati, sopraffatti dal micidiale “The show must go on”. Sì, lo spettacolo deve andare avanti, non ci si può fermare. Parlo, insomma, dei cantanti, dei dj, degli uomini e delle donne che lo “spettacolo” lo tirano su mattone su mattone. Però i mattoni pesano; loro lo sanno bene. Sanno che devono tenerli assieme, che sono loro il “cemento” e che non possono permettersi distrazioni. Sanno che un passo falso, una parola in più (o una in meno) saranno soppesati dal pubblico, giudicati, guardati al microscopio. Non è facile. Qualcuno ce la fa, qualcun altro può cedere.
Cedere come? Cedere fino a morirne, come è successo a Erik Morillo, dj, musicista, e fondatore di un’etichetta discografica (la Subliminal Records). Un artista, un amico di chi c’era, un amico anche mio. Morillo è morto lo scorso 1° settembre a Miami. Morto come? Morto perché? La superstar di origini colombiane, gigante della musica house, ci ha salutati senza spiegazioni: c’è chi dice suicidio e chi dissente battendo altre piste. Una certezza c’è: Morillo è uno dei tanti “caduti” della sovraesposizione mediatica. Essere sempre sotto i riflettori, sempre osservato, spiato, inquadrato con la lente centimetro dopo centimetro non è una passeggiata. Strada facendo – passeggiando, anzi correndo a perdifiato – ogni tanto cadi; ti ritrovi in una buca dalla quale non riesci ad uscire. Così ti metti a cercare un trampolino, una scala che ti dia una mano, qualcosa che alteri la realtà, qualcosa che credi ti faccia bene ma ovviamente ti inganna, qualcosa di brutto e sporco in qualsiasi forma si materializzi e si manifesti.
Non parlo più di Morillo, non più solo di lui. Parlo di tutti coloro che, come Erik, avrebbero voluto che qualcuno spegnesse la luce; cercavano una notte qualsiasi, una di quelle dove stare finalmente da solo, per guardarsi senza essere guardato.
Metterci la faccia. C’è chi ce la fa e chi no. C’è anche, guarda un po’, chi indossa una maschera; non metaforica, l’ho già detto e scritto qualche riga più su. Ci sono decine di showman che si nascondono dietro una maschera di cartone (o di stoffa, o di quel che vogliono e vorranno). Un vezzo? Una moda? Un modo per far parlare di sé? Anche, ma non solo. Alcuni – molti – optano per la maschera proprio per difendersi, per conservare un po’ di intimità, una manciata di ricordi, di emozioni, di paure solo per sé.
Daft Punk, Sia, Miss Keta, Junior Cally fino ad arrivare a Bansky. Potrei fare tanti nomi; tanti personaggi più o meno di peso, più o meno “divi” che nel mondo calcano le scene a viso coperto. Vezzo o rifugio, l’ho già detto, dipende da caso a caso; da persona a persona. Un nome, un esempio c’è anche dalle nostre parti. È Liberato, il cantante misterioso che nessuno sa chi sia, che età abbia, donde venga. Napoletano o no? Nessuno lo vede ma in tanti, paradossalmente, vanno a vederlo (dal vivo o quanto meno su YouTube)). Liberato, un nome che parla da sé: liberarsi degli sguardi indiscreti ed essere libero. Libero di muoversi in città con la sua faccia anonima. Muoversi, parlare, mettere su una tresca senza affogare nel gossip…
L’avrà fatto per questo? Non lo so; nessuno lo sa. Comunque l’ha fatto e, con lui, lo fanno decine di altri uomini e donne.
Chi ci mette la faccia, invece… Chi ce la mette, a volte fa più fatica; si può far male. È la storia di Morillo ma è anche la storia di Whitney Houston, Avicii, Amy Winehouse e di tanti altri.
Ammetto che ogni carriera, ogni vita (e ogni morte) è un fatto personale, irripetibile. Non posso affermare senza ombra di dubbio cosa è successo – e perché – a lui, a lei, all’altro… Ma tant’è: lo show-business, comunque la si pensi, è una fabbrica di stress. La visibilità eccessiva può portare alla depressione o farti soffrire di crisi di onnipotenza (alla lunga anche quella è una forma di depressione…). Insomma si sta male; mi correggo: ci si può fare seriamente male.
Succede negli States e succede – da sempre – anche qui da noi. Succede che metti la maschera per sempre, che non la metti mai o anche che decidi di… scomparire dopo anni di sovraesposizione. Scomparire come? Continuando a fare l’artista ma facendo in modo che chi parla di te parli solo della tua arte. Un esempio su tutti è Anna Maria Mazzini, in arte Mina. Non c’è alcun bisogno di dilungarsi, di “raccontarla”: anche chi ha vent’anni oggi sa chi è, cosa ha fatto, cosa ha cantato (e come canta e cantava). Musica, televisione, cinema e chi più ne ha più ne metta. Ad un tratto, nel 1978, accortasi di come lo show-business ti possa “divorare”, consumare, ha deciso di sparire. La sentiamo (in musica) ma non la vediamo. Niente interviste, niente tv, niente “live”, niente di niente. Un vero e proprio “canto libero” come direbbe Battisti (eccone un altro: Lucio non amava affatto essere “perquisito” dal pubblico).
Era un artista Erik, ve lo assicuro. Lo era anche quando con due dita in bocca fischiava al suo pubblico incitandolo e richiamandolo come un pastore fa con le sue pecore. Il gregge è sinonimo di moltitudine, di folle, di famelici fan che si nutrono dell’anima dei loro pastori: e i pastori sono loro, sono gli artisti come Erik “More” Morillo.
Sono loro, che ci mettano la faccia o meno. Decidono loro.
Sempre e comunque alla faccia nostra.