EDITORIALE DI GIUSEPPE POLLICELLI

di Giuseppe Pollicelli

Il tempo è di solito un giudice attendibile: sopravvive nella nostra memoria ciò che meritava di sopravvivere. A volte, però, la selezione non riesce al meglio e nel dimenticatoio finiscono opere e persone di valore.

 

RICORDIAMOCI DI ATTALO

Selezionare le cose da ricordare è un’operazione non soltanto utile ma assolutamente indispensabile. Vale, nel piccolo, per ciascuno di noi (sarebbe una tortura se fossimo costretti a rammentare tutte le persone che abbiamo incontrato, anche quelle per noi più insignificanti, o se non potessimo scordarci di libri o film che ci sono particolarmente dispiaciuti), e vale in generale per l’intera umanità. Dimenticare significa definire una gerarchia fra le cose, stabilire cosa meriti di essere salvato dall’oblio e cosa no. Parlando di letteratura italiana del Novecento, ad esempio, se non si fosse perso il ricordo dei libri di Leonida Rèpaci sarebbe più difficile (perché una preziosa porzione di memoria collettiva risulterebbe occupata) avere presenti quelli di Italo Calvino o di Leonardo Sciascia.

Solitamente il tempo è un giudice attendibile: ciò che sopravvive meritava di sopravvivere e quel che viene cancellato non era in e etti degno di reminiscenza. Le opere manifestamente geniali, soprattutto, è difficile che non vengano riconosciute come tali, magari qualche anno dopo la loro realizzazione (quello della riscoperta è un fenomeno frequente e spesso provvidenziale): la Commedia di Dante, i testi teatrali di Shakespeare o le storie di Paperino di Carl Barks non sarebbero mai potuti passare inosservati, neanche nella più distratta delle epoche. Ma se si scende qualche gradino e ci si reca in zone che sono al di sotto (anche di poco) dell’eccellenza assoluta, allora può succedere di imbattersi in casi spiacevolmente ingiusti. Abbiamo detto infatti che il tempo è solitamente un giudice attendibile, ma “solitamente” non significa sempre. Qualche volta la cernita non riesce nel migliore dei modi e così si finisce per smarrire qualunque traccia di creazioni dell’ingegno che, al contrario, sarebbe bene preservare dalla dimenticanza.

È certamente questo il caso delle vignette e delle tavole realizzate tanto tempo fa da un bravissimo umorista e disegnatore di cui nel 2016 ricorrono i trent’anni dalla scomparsa. Questo autore si chiamava Gioacchino Colizzi, era nato a Roma nel 1894 ed è stato a lungo, con lo pseudonimo di Attalo (scelto perché l’omonimo re di Pergamo “è l’unico personaggio storico che mi ricordi di aver studiato a scuola”), una firma conosciuta e apprezzata del giornalismo italiano. Oltre a essere dotato di un tratto molto moderno, tendente al caricaturale ma con un impianto che rimarrà sempre essenzialmente realistico, Attalo ha saputo ironizzare in maniera efficacissima sulle piccolezze e le meschinità sia del proletariato degli anni Trenta, in particolare quello romano, sia sulla gura sociale del piccolissimo borghese desideroso di apparire più benestante e gaudente di quanto in realtà non fosse. La creazione più nota di Attalo, protagonista a partire dal 1931 di una lunga serie di vignette sulle pagine del periodico “Marc’Aurelio”, è per l’appunto un personaggio – o meglio una maschera – che rappresenta alla perfezione la cialtronaggine e le aspirazioni improprie (e quindi sempre frustrate) di questo tipo di italiano: si tratta del Gagà che aveva detto agli amici…, mirabile e ineguagliato esempio di satira di costume che gioca virtuosisticamente sull’ambiguità semantica di alcune espressioni – sovente frasi fatte – della lingua italiana. Per intenderci, se la didascalia ci informa che il Gagà è caduto (si presume eroicamente) sul Gran San Bernardo, il disegno ci chiarisce che il San Bernardo in questione non è a atto il valico alpino bensì un cagnone di razza San Bernardo contro cui il Gagà è goffamente incespicato nel tentativo di tampinare una fanciulla.

Antologie delle tavole di Attalo non ne escono più ormai da decenni e, con il mesto tramonto dell’editoria tradizionale a cui stiamo assistendo, è vano sperare che a qualcuno venga in mente di riproporle in futuro su di un supporto cartaceo. Sarebbe però il caso, sfruttando la rete, di allestire una sorta di archivio on line che raduni, se non tutto, almeno una parte consistente del materiale prodotto da Gioacchino Colizzi nel corso della sua lunga carriera. È un ripescaggio che non è esagerato definire doveroso: sia perché l’umorismo di Attalo e la sua bravura come disegnatore rappresentano un patrimonio di enorme valore, sia perché il recupero dei suoi lavori potrebbe proficuamente ispirare qualche umorista di oggi. Ed è superfluo sottolineare quanto agli italiani (con i romani in testa, lo dico da romano) gioverebbe venire “fustigati” da artisti in grado di denunciarne impietosamente i vizi e i difetti con la sferza dell’ironia.

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