CONI: “Carlo Molfetta “

Carlo Molfetta “Sono pronto per rivoluzionare il taekwondo”

 

Di Beatrice Gentili

 

Carlo brilla tra le stelle di Olimpia dal duemiladodici, quando ai Giochi di Londra vinse la medaglia d’oro nella categoria +80 kg, coronando quel sogno nutrito fin da bambino. Merito della determinazione e della tenacia, a dispetto degli infortuni che volevano interrompere i suoi sogni. Abbandonato l’agonismo, oggi l’ex taekwndoka è Team Manager della Nazionale Italiana e ci rivela il suo nuovo sogno nel cassetto.

 

Il Taekwondo ha cinquant’anni. Lei come si è avvicinato a questo sport?

Mio padre lo praticava e da piccolino non volevo mai separarmi da lui. Mi portava nelle palestre e quando vidi i ragazzi che tiravano i calci in volo, decisi di iniziare anch’io.

Il DNA del campione era già dentro di lei o da piccolo era uno dei tanti allievi della palestra?

Il maestro mi elogiava, diceva che non mi stancavo mai e che facevo cose mai viste. Credo che, già da piccolo, qualcosa si intravedesse. Ma oltre al fisico conta l’aspetto mentale: senza qualità “psichiche” si rischia di non raggiungere nessun traguardo.

Lei di traguardi importanti ne ha raggiunti tanti. Capitano della Nazionale Italiana fino al 2014, campione olimpico della categoria sopra gli 80 kg a Londra 2012…

A dodici anni dicevo ai miei compagni che avrei vinto le Olimpiadi, ed era il mio unico sogno. Ovviamente il mio impegno con la Nazionale, l’esser diventato a vent’anni il capitano, ha rappresentato una soddisfazione che si è aggiunta a tutto il resto, come una decorazione che non fa che abbellire il quadro e renderti ancora più fiero.

Come accade a molti sportivi, tanti infortuni hanno interrotto temporaneamente la sua ascesa. Come ci si rialza?

Non le nego che c’è stato un momento in cui, dopo l’ennesimo infortunio, pensai di ritirarmi. Il presidente della Federazione, all’epoca solo Segretario Generale, quando gliene parlai mi diede una risposta provvidenziale. Disse: “Carlo, noi come Federazione crediamo ancora in te; ma è la tua vita, sentiti libero di prendere la tua strada”. Fu un po’ come il consiglio di un padre che lascia al figlio libero arbitrio. Quelle parole, insieme a quelle della mia famiglia e dei miei amici, mi hanno ridato non tanto la forza, quanto la tranquillità di rimettermi in pista senza pressioni. Il mio problema nello sport è sempre stata la foga con cui affrontavo qualsiasi prova. E invece per la prima volta mi sono preso del tempo, non ho forzato per le qualificazioni di Pechino 2008 e ai Giochi di Londra sono tornato e ho vinto.

E qui torniamo all’importanza dell’aspetto mentale…

È tipico degli sportivi chiedere tanto a sé stessi. Odiavo perdere e questo mi caricava di una pressione enorme: positiva in gara, ma deleteria durante i periodi di infortunio. Ho fatto un lavoro duro e costante con uno psicologo che mi ha insegnato a non trasformare questa mia caratteristica in una condanna. E forse sono state proprio l’ambizione e la testardaggine le mie carte vincenti.

La sua famiglia che ruolo ha avuto nella sua crescita sportiva?

Ripeto sempre a tutti l’importanza della famiglia nella crescita di un’atleta. Spesso i genitori si intromettono nella vita di un figlio, proiettano su di lui i loro sogni; non gli permettono di sbagliare e questo non li aiuta. Un’atleta deve essere appoggiato dalla famiglia, ma senza intromissioni. Fortunatamente mio padre e mia madre che mi hanno supportato nei momenti di difficoltà senza “vivere” i successi al mio posto.

Si sarà trovato tante volte a dover scegliere tra una vita più facile e una carriera fatta di sacrifici…

Posso dire di aver vissuto una vita stupenda; unico rimorso: non aver vissuto l’adolescenza. Non ho mai saputo cosa volesse dire andare in giro con gli amici o riunirsi a casa con i compagni per giocare con la playstation. Un’atleta che voglia diventare competitivo non ha questo tempo libero. E qui torna l’importanza della famiglia, che ti insegna il valore dei sacrifici e quanto siano importanti per raggiungere ciò che si vuole. Nel momento in cui ho vinto l’Olimpiade ogni singola lacrima o goccia di sudore è stata ripagata.

Nel settembre 2016 ha annunciato il suo ritiro dall’attività agonistica. Quanto pesa per un atleta del suo calibro, dopo un oro olimpico, lasciare il ring?

Quando le decisioni sono state maturate con consapevolezza, si prosegue tranquilli. Non ho mai sopportato i rientri e ho sempre pensato che qualora avessi deciso di lasciare il taekwondo sarebbe stato definitivo. La vita di un atleta è un percorso a scadenza e ognuno scrive la propria. Ho iniziato a puntare altri obiettivi, ad avere sogni diversi e ho avuto voglia di lottare per altro. Oggi il mio scopo è di formare una nazionale competitiva, non composta da un solo fenomeno ma da tanti campioni. L’obiettivo a lungo termine sarebbe quello di diventare un giorno presidente del CONI e, perché no, portare la mia idea di sport, che per adesso tengo segreta (sorride, NdR)

Dal 2017 è Team Manager della Nazionale Italiana. Cosa rappresenta per lei questo incarico?

Era proprio quello che avevo in mente di fare dopo la fine dell’agonismo. La figura dl team manager prima di me non esisteva, era affidato tutto al direttore tecnico. Oggi faccio quello che nel calcio è compito del direttore sportivo. Mi occupo di organizzare a trecentosessanta gradi la giornata dell’atleta e di lavorare di concerto con lo staff per stilare il suo programma migliore.

Il taekwondo non è tra gli sport più popolari in Italia. Perché i giovani dovrebbero avvicinarsi a questa disciplina?

Oggi più che mai, in questa società nella quale abbiamo perso la bussola e il rispetto per qualsiasi cosa, il taekwondo è un mezzo per fare proprio il valore del rispetto. Oltre la parte più spettacolare dei calci in volo o delle mosse coreografiche c’è tutto un lavoro fatto sui ragazzi a livello umano. Per chi non ha una famiglia alle spalle, con il taekwondo significa trovarla, e per chi ce l’ha vuol dire averne una seconda…

Chi è Carlo Molfetta fuori dal ring? Si definisce un combattente anche nella vita di tutti i giorni?

Un simpatico umorista. Mi piace affrontare qualunque momento della vita con il sorriso. Non c’è nulla che possa rovinarmi la giornata. Nello sport mi ha aiutato tanto: ero il primo ad arrivare all’allenamento, ma ero anche il giullare di corte. Non ho mai pensato che non si potesse essere seri nello sport anche sorridendo. Fuori dal quadrato sono anche marito di Serena Francucci e padre di una splendida bambina di pochi mesi, Rachele, la mia gioia.

Share This

Copy Link to Clipboard

Copy