ARTE E CULTURA: “Enrico Dico’”

Dicò: il fuoco dentro; e fuori

A giocare col fuoco ci si scotta. Ma ora gli “scottati” siamo noi che in giro per il pianeta, nelle gallerie più prestigiose al di qua e al di là dell’Atlantico facciamo conoscenza con le opere di Enrico Dicò. “Faccio il lavoro più bello del mondo – ci dice raggiante –. Sono qui ma sono ovunque, “appeso” alle pareti di mezzo mondo…”. L’arte commuove, comunica, brucia. Lui, per questo, ha inventato la Combustione.

Di Riccardo Zona

Imbottiti di cliché ci aspettavamo il solito artista estraniato, con lo sguardo perso nelle sue elucubrazioni inarrivabili per noi uomini e donne di un mondo troppo banale e prevedibile; noi che pensiamo alle prossime ferie, che appuntiamo la nota della spesa o telefoniamo all’officina per chiedere notizie della frizione e poi corriamo in direzione dei nostri impegni quotidiani, quelli che riempiono le nostre giornate e che ci fanno sentire vuoti. L’artista non bada alla spesa, all’appuntamento di lavoro, alla telefonata con l’idraulico. Roba da omuncoli che brulicano in un piccolo mondo.
Invece no: Enrico Dicò è un cinquantenne concreto che, chiuso dentro il suo giubbotto nero, ci parla della vita di un uomo tra gli uomini che cammina, sgomita ogni giorno anche per gli affari più banalmente quotidiani. Potremmo scambiarlo per un manager rampante, un professionista, un tecnico del suono, un allenatore di rugby. Per anni ha lavorato come grafico pubblicitario, alle prese, quindi con il telefono, le scadenze, gli orologi sempre troppo veloci… Insomma Dicò vive nel mondo come noi. Ma già a 10 anni ha scoperto la sua marcia in più: armato di pennello dipingeva pregevoli tele della “Roma sparita”. Partecipò poi ad un concorso scolastico europeo nel quale si classificò primo nel Continente. Seguì il passaggio all’Istituto d’Arte, la frequentazione delle “botteghe”, la conoscenza di Mimmo Rotella, le prime mostre, i primi riconoscimenti dentro e fuori il Belpaese. Arriverà il giorno della sua tecnica, il segno distintivo del “brand” Dicò: la combustione.
Ma parliamone con lui: ci sono le passioni “congenite”, già scritte nella culla, e quelle che affiorano più avanti.

Quando hai trovato la tua strada?
“La passione deriva dalle doti che si posseggono. La mia dote, fin da bambino, affiorò con prepotenza; mi piaceva dipingere, amavo perdutamente i colori sul foglio che diventano forme, idee, movimenti frenetici nell’immobilità di un paesaggio, una casa, un monumento, sempre uguali a sé stessi ma sempre imprevedibili, pronti a cambiare scena ed a gridare rabbia, paura, storie risapute ma mai ascoltate davvero… Dipingere mi aiutava, e mi aiuta, a lenire il dolore, a stare meglio con me stesso”.
Il suo lavoro di grafico lo porterà a sperimentare tecniche nuove, a spremere tutto lo spremibile nel “pianeta” comunicazione. Noi ce lo figuriamo mentre combatte con il cliente sufficientemente insoddisfatto e incompetente quanto basta che vuole il logo nell’angolo sbagliato, chiede un colore che “spara” ed esige caratteri più grandi, più “grassi”, più meschini che mai.
Veniamo alla Combustione: Dicò avvolge i ritratti dei “personaggi” del nostro tempo o altre immagini parimenti celebri in una lastra di materiale plastico che viene poi bruciato e piegato. Così l’immagine, il viso, tutto assume altre forme, altre storie. I miti si trasfigurano, divengono altro e altri per tornare finalmente unici. Il fuoco stavolta non uccide, non cancella: conferisce semmai nuova vita.

Come è nata la Combustione? Ti ricordi quel giorno?
“Si è trattato di un miracolo assolutamente casuale. Stavo nello studio grafico e giocherellavo con un accendino; la fiamma lambiva un contenitore di plastica e questo cominciò ad accartocciarsi finché non si formò una bolla di calore. Vidi subito una scultura, un movimento. Vidi, insomma, qualcosa di infinitamente vasto, un linguaggio capace di mille vocabolari, milioni di idee”.

L’arte per te deve sempre comunicare, mandare “messaggi”?
“Deve emozionare, bagnarti gli occhi o farti avvertire un “tuffo” nella pancia. Ma, prima di tutto, un’opera deve smuovere chi la realizza: sono io il primo a saltare, il primo a “sentirla””.

Un artista deve essere sempre riconoscibile? Avere il suo “marchio di fabbrica”?
“L’artista è trasparente: tu lo vedi, lo “studi” nei musei, nelle gallerie e lo riconosci. Con gli anni può cambiare la tecnica, l’approccio, ma le opere devono restare inconfondibili. Anche i più perfetti falsi d’autore, non a caso, sono senz’anima”.
Dicò oggi espone nel mondo ed è apprezzato ovunque; molte stelle di Hollywood si sono litigati le sue opere; chi sarà stato il primo? “Beh, ricordo quando mi chiesero un ritratto per Morgan Freeman – risponde –, di passaggio a Roma; ne fu contentissimo. Se sia stato il primo non ci posso mettere la mano sul fuoco… Posso dirlo? Il mio è il lavoro più bello del mondo: sto qui ma sto altrove, sulle pareti di tanti salotti, tante gallerie, tanti angoli del Pianeta. Taccio ma parlo di me. E mi ascoltano in tanti…!”.

C’è stato mi un momento in cui hai pensato di mollare tutto? Infine: hai un messaggio per i più giovani, a prescindere se vogliano o non vogliano intraprendere questa strada?
“Proprio quando stava per partire la mia mostra al Complesso del Vittoriano (Estate 2017, NdR) seppi che mia figlia stava molto male. Mi volevo fermare; poi sono andato avanti, ed è stata la scelta giusta. Mia figlia ora ha superato quella “montagna”. Cosa dire a tutti gli altri figli, tutti gli altri “under”? Credere in loro stessi, sempre. In Italia è più difficile, lo so, c’è poca meritocrazia e si tende a “strappare” i meriti agli altri. Impareremo, impareranno a fare come negli Usa: da quelle parti ci si prende per mano e si poggiano i piedi sulla Luna. Crollano le Twin Towers? In pochi mesi si costruisce qualcosa di più grande, di più alto, che resta nei cuori di tutti. Da noi ci sono tanti uomini e tante donne geniali che hanno appena vent’anni. Beh, non andate via; sfruttate il “fuoco” che avete dentro…!”.
Il fuoco dentro. Beh, se lo dice lui…

Share This

Copy Link to Clipboard

Copy