Rinascimento musicale
C’erano una volta il XV e il XVI Secolo. Noi non c’eravamo. Ci siamo ora, addì Secolo XXI; e siamo in attesa del nostro Rinascimento. Quello che comincia, comincerà, con la musica. Per esempio Roma; per esempio l’Auditorium Parco della Musica. Ne parliamo con Daniele Pitteri, AD della Fondazione Musica per Roma.
Di Roberto Fantauzzi
Un milione di spettatori ogni anno; forse anche di più. Due milioni di orecchie e altrettanti occhi che si aggirano, anno dopo anno, tra le stanze e le sale dell’Auditorium di Roma. Siamo nel tempio dello spettacolo, della cultura. In primis, della musica. Ma la musica, si sa, “suona” in tanti ambiti: suona nel cinema, suona nei nostri ricordi, nei nostri sogni. Suonando – e risuonando – è capace di farci ridere e di farci piangere.
La musica riesce a smuovere dai divani e dall’apatia eserciti di donne e di uomini che si lasciano catturare dalle note, dal ritmo, dal turbine della danza.
Musica e danza, musica e balletto, musica e opera, musica e immagini. La storia continua con il pop, il rock, il jazz… La storia continua, sì, e nessuno – men che meno io – può vantarsi di sapere quale sarà (e quando) l’ultima pagina. L’epilogo è ignoto; per fortuna.
Musica, cultura, spettacolo, scienza. Tutto questo si sente, si vede, si “tocca” all’Auditorium Parco della Musica di Roma. Il “motore” dell’Auditorium – uno dei più grandi d’Europa – è la Fondazione Musica per Roma il cui amministratore delegato, da luglio dello scorso anno, si chiama Daniele Pitteri.
Napoletano, classe 1960, Pitteri sarà affiancato in questa avventura da persone che questo “monumento” l’hanno visto nascere. Numeri di spettacolo e numeri – servono anche quelli, certo che servono – finanziari: bilanci in attivo che oggi sono meno scontati di ieri.
Pitteri, per nulla intimidito, si è messo al timone di questa nave pur sapendo di dover navigare nelle acque tempestose della pandemia, dei lockdown, dell’Italia agli arresti domiciliari che ha provato ad accontentarsi degli strimpellatori da balcone o degli spettacoli in streaming.
No, non ci siamo accontentati; non ci accontenteremo mai. Pitteri lo sapeva. Pitteri lo sa bene. Se la sua “nave” solca un mare difficile lui, di sicuro, è un capitano coraggioso. Coraggioso e preparato, con un curriculum che farebbe impallidire qualunque “Achab”: già direttore del Complesso Museale di Santa Maria della Scala (Siena) e della Fondazione Moderna Arti Visive. Andiamo avanti con i “già”: docente di Comunicazione e Marketing alla Sapienza di Roma e all’Università di Siena, membro della Commissione ministeriale per la valorizzazione del patrimonio culturale e della Commissione Impresa/Cultura di Confindustria; ancora: ha collaborato con la Biennale di Venezia, l’Istituto Francese di Napoli, la Triennale di Milano, il Premio David di Donatello, la Regione Toscana, la Fondazione Cariplo… Continuo? No, mi fermo e torno qui, all’ombra di questi immensi “scarabei” disegnati da Renzo Piano che, da quasi vent’anni, sovrastano Roma nord facendosi “sentire” nella Roma tutta.
Roma e non solo: l’Auditorium Parco della Musica – l’ho già detto e scritto poche righe sopra – fa musica, cultura spettacolo (e storia) attirando pubblico da ogni dove. La nave va, direbbe Fellini.
Ora sul ponte di comando c’è Pitteri. Cosa è cambiato? Cosa cambierà ancora? Inutile arrovellarsi con le ipotesi e gli indovinelli: il dottor-professor Pitteri è davanti a me.
Dunque si parte: parto con le domande.
Abbiamo bisogno di un nuovo Rinascimento. Bisogno, fame di ripartenza; di incontri, di sguardi, di abbracci… Soprattutto siamo da troppo tempo digiuni di spettacolo. A partire dagli spettacoli musicali, quelli che fanno vibrare la pelle e i ricordi. Quelli che ci fanno viaggiare. Non crede che il “Rinascimento” edizione 2021 possa iniziare proprio dalla musica?
“Personalmente non amo l’abuso che si fa, del termine “Rinascimento”, soprattutto associato all’aggettivo “nuovo”. Non lo amo perché penso che ogni epoca si esprima per ciò che è e l’idea di guardare ad un passato, per quanto glorioso, non mi pare un buon modo per costruire il futuro.
Oggi ci troviamo dentro una crisi nuova e profonda, un qualcosa non di sconosciuto dall’umanità nella sua storia, ma di sconosciuto per noi, soprattutto per noi europei, cresciuti con una sorta di senso di invulnerabilità, determinato dal fatto che da 75 anni non abbiamo guerre e tutto ciò che portano le guerre: miseria, malattie, epidemie, morte. Dopo 18 mesi di grande paura, in questa estate ci troviamo nella circostanza di intravedere una via di uscita. Ma è una via molto stretta e non ancora tracciata, piena di incertezze incombenti. Ciò non significa che si debba restare fermi, aspettando che passi. Sono proprio questi momenti di grande instabilità che debbono aiutarci a guardare le cose con un’ottica nuova, ponendosi soprattutto una domanda: se tutto ciò dovesse continuare ancora a lungo, come possiamo trovare un equilibrio in grado comunque di ridonarci l’elemento caratterizzante delle comunità umane, ossia la socializzazione, le relazioni, la condivisione di esperienze e, naturalmente, anche gli abbracci?
In questo senso, allora, più che di “rinascimento” parlerei di “rinascita”, intesa proprio come nuovo inizio, come una straordinaria opportunità che abbiamo per costruire delle vite e un futuro nuovi, che non rimpianga il passato e che abbia invece il coraggio e la sfrontatezza di iniziare da zero, come se non sapessimo nulla e dovessimo imparare tutto.
E in questa “rinascita” la musica sì che può diventare fondamentale. La musica è un linguaggio universale, con una potenza e una capacità evocative che ci attraversano la pelle e che scuotono la nostra emotività come nessuno altro linguaggio. Proprio per questo è sicuramente il linguaggio che più ci può aiutare a inventarci un futuro diverso, a ricostruire le nostre vite e la nostra socialità. Ma può farlo solo se non si confonde la musica con gli usi e i costumi connessi ad essa, ultimamente molto radicati alla partecipazione e alla condivisione fisica. Possiamo invece imparare a partecipare e a condividere in presenza sì, ma inventandoci nuove ritualità. E i riti, ricordiamocelo, sono quelli che poi definiscono l’essenza delle comunità.
È importante che questa estate ci sia molta musica. Prendiamocela comunque, proprio perché è talmente forte emotivamente che per tutti costituisce una ricchezza incomparabile. Ma usciamo dall’equivoco che o la si fruisce come prima o non ha senso fruirla. E se quel “prima” non potesse tornare più che si fa, non si fruisce più? Prendiamocela la musica, sempre. Ci sono mille modi per viverla e sono tutti buoni e belli e decisivi per aiutarci a migliorare le nostre vite”.
L’Auditorium Parco della Musica, da sempre, ha un ventaglio variegato di proposte, musicali e non solo: musica sinfonica, jazz, pop, rock. Ampio spazio anche alla musica italiana, da Daniele Silvestri ai Maneskin, da Elisa a Gabbani… Poi la scienza, l’arte, la fotografia e molto altro. C’è un filo conduttore che unisce tutto questo? Qualche tempo fa, intervistato dal Messaggero, lei ha detto: “Si va da Gigi D’alessio a Nick Cave. Nulla da eccepire, ma le linee di proposta devono essere chiare…”. Cosa è cambiato con il suo arrivo?
“L’Auditorium Parco della Musica è il più grande luogo di spettacolo d’Europa. La sua ricchezza e la sua forza devono sostanziarsi in un’offerta molto differenziata, che si rivolga a pubblici anche molto diversi. Questo è un patrimonio da non bruciare, anzi da rafforzare. E il modo per rafforzarlo è quello da un lato di rendere l’offerta chiara e leggibile, con una palese definizione di generi e di contenuti, in modo anche da aiutare il pubblico a scegliere meglio; dall’altro individuando alcuni indirizzi, alcuni solchi entro cui far crescere e far fiorire, qualificandola, la nostra offerta. Noi per i prossimi anni abbiamo scelto di valorizzare le culture artistiche e scientifiche italiane a partire dal secondo Novecento fino ad oggi. Abbiamo scelto di farlo perché il nostro Paese ha saputo esprimere in questo lasso di tempo una grandissima qualità in tutte le discipline, però spesso ce lo dimentichiamo; Ed è un peccato. Credo che Roma sia il luogo giusto per valorizzare la nostra produzione artistica. La seconda linea che seguiremo sarà quella dell’ibridazione dei linguaggi artistici: proporre e produrre spettacoli e progetti in cui più forme artistiche si parlino e si influenzino a vicenda, anche con molta attenzione all’apporto delle tecnologie nelle arti. L’ultimo indirizzo consiste nel fare tutto ciò mescolando cultura alta e cultura bassa, quindi senza alcuno snobismo, anche in maniera provocatoria se è necessario. Stiamo costruendo il 2022 e gli anni successivi secondo questi indirizzi e siamo convinti che questi non solo rafforzeranno il nostro rapporto con i pubblici che già frequentano l’Auditorium, ma che ce ne porteranno nuovi. In questo 2021 c’è qualche segno di tutto ciò, ma purtroppo avendo dovuto lavorare in continua emergenza, senza tempi certi, abbiamo dovuto affidarci ancora molto alla creatività e all’improvvisazione, che comunque ci hanno consentito di costruire un palinsesto da giugno a settembre di oltre 160 concerti fra Auditorium e Casa del Jazz e il grande successo delle Lezioni di Storia e delle Lezioni di Letteratura in streaming sulla piattaforma che abbiamo creato quest’inverno, AuditoriumPlus. Oltre 25 mila biglietti venduti per le lezioni certificano il successo di questa sperimentazione”.
La città e l’Auditorium: dialogano tra loro o sono, ancora, due isole? Spiego meglio: Roma si riflette, si identifica in questo tempio della cultura, dello svago, dell’arte o c’è ancora qualcuno che ritiene si tratti di un luogo “chiuso” riservato agli addetti ai lavori (musicofili, critici e altri pensatori sparsi)?
“Prima di arrivare qui a dirigerlo, l’Auditorium lo conoscevo da spettatore, uno spettatore non residente. E mi è sembrato sempre un luogo straordinario per la capacità di attirare pubblici molto diversi. Arrivato a Roma ho toccato con mano questo che lei dice, ossia la percezione abbastanza diffusa che sia un luogo chiuso, lontano dalla città. Ma mi lasci dire che è una percezione smentita proprio dalla varietà di pubblici che lo frequenta. Certo: la presenza di Santa Cecilia, una delle più importanti istituzioni sinfoniche del mondo, può rimandare questa idea di posto elitario. Ma solo perché noi in Italia viviamo la musica classica come qualcosa destinato a pochi. I concerti classici a Berlino come a New York sono pieni di pubblico giovane. Solo qui vive questo equivoco. Tuttavia Santa Cecilia è una parte importante dell’Auditorium, ma qui è passata gente come Bob Dylan e Roger Waters, monumenti della musica rock, e ci passano giovanissimi musicisti come RKomi e Ariete o grandi cantautori di ieri e di oggi come Gino Paoli e Max Gazzè o musicisti con un grande seguito popolare come Gigi D’Alessio o Umberto Tozzi. Elitario proprio no. Anzi: non esiste luogo a Roma e forse in Italia più multitarget dell’Auditorium.
Poi, noi come Fondazione Musica per Roma, fedeli al nostro nome, abbiamo un progetto pluriennale che si chiama “perRoma” e che ha il doppio scopo da un lato di avvicinare pubblici che qui non verrebbero mai per vari motivi (economici, sociali, culturali), andando noi da loro. A giugno in un weekend siamo andati a portare musica in 100 cortili condominiali, dalla Romanina a Ostia, da San Lorenzo a Centocelle. L’altro scopo è utilizzare la musica come elemento collante delle comunità e quindi sviluppare iniziative che usando la musica aiutino ad abbattere pregiudizi e differenze. Stiamo costruendo un grande coro di bambini, multietinico, per avvicinare tutte le culture che insistono sul territorio e aiutarle a conoscersi e ad apprezzarsi a vicenda”.
L’Auditorium è anche una “piazza”: famiglie con bambini in bici al seguito, coppie a passeggio, bibliofili che si attardano nella grande libreria… Gente che va e gente che viene, magari senza mai acquistare un biglietto per uno spettacolo. Cosa aggiungerebbe all’”offerta” di questa piazza? Immagina qualcosa che possa dare ancora più luce agli… scarabei?
“L’Auditorium deve trasformarsi da spazio a luogo. Oggi è vissuto soprattutto per la sua funzione, i concerti che vi si svolgono. Ma in realtà è molto di più: è il più grande luogo di spettacolo d’Europa; è opera di uno dei maggiori architetti viventi, una vera archistar; è un pezzo di città, con il suo parco pensile e con i suoi spazi esterni. Ma tutto ciò deve essere valorizzato e messo a sistema, facendolo diventare da un lato un luogo aperto sempre, strettamente collegato alla vita quotidiana, dove chiunque deve avere voglia di venire a prescindere da ciò che si programma nelle sale. Dall’altro deve avere un’offerta diversa da quella di spettacolo degna del rango dell’Auditorium. Se è il luogo di spettacolo più grande d’Europa, se è opera di Renzo Piano, se ci viene a cantare Bob Dylan, dobbiamo avere servizi di intrattenimento, ristorazione, accompagnamento dello stesso valore, il che non significa elitari. Significa di qualità, quindi direttamente legati al benessere delle persone”.