Lorenzo Puglisi: riconoscersi al buio
Il buio che diventa colore; il colore nero, che non è affatto tenebroso o spento. Dal buio affiorano volti, mani, la vita. Vengon fuori le espressioni più intime, più vere di chi – nel dipinto – è l’uomo, la donna, l’individuo ritratto (o immaginato). Puglisi ha poco più di quarant’anni ma ha le idee chiarissime sull’arte, la pittura e le emozioni che queste possono dare. Il mercato? Deve esserci, ma non è “lui” che guida il pennello.
Quando cala il sole ci muoviamo con circospezione, temiamo di incespicare e di non riconoscere chi ci viene incontro. Non lo riconosciamo o siamo certi di non conoscerlo: sarà un estraneo, qualcuno che – come noi, come me – si è avventurato nel “nero” della notte; annaspa, come me, alla ricerca di qualcosa di familiare, di sicuro. Una voce, un riferimento nel buio in grado di fare un po’ di luce.
Eppure il nero, il buio può essere accecante; può “raccontare” molto più di mille immagini cogliendo quei gesti, quelle paure, quelle parole non dette che – in pieno sole – ci sfuggirebbero per sempre.
Se ne è accorto da tempo Lorenzo Puglisi, classe 1971. Puglisi riesce a cogliere, nei suoi dipinti, tutto quello che crediamo di non vedere alla luce e che, invece, vediamo benissimo muovendoci nelle tenebre: dalle tele nere e apparentemente impenetrabili affiora un volto, delle mani che si intrecciano, si stringono. Mani e volti di uomini e donne che, seppure senza nome, parlano, gridano, piangono, raccontano, ammoniscono. Figure bianche e umanissime attraversano la notte e accendono l’oscurità.
Quegli uomini e quelle donne appena tratteggiati ci sembra di conoscerli da sempre. Perché “loro” siamo noi. Noi e le nostre lotte, le nostre emozioni, le nostre paure, il nostro mondo che ogni giorno si illumina e poi si spegne nella notte.
Le opere di Puglisi sono apprezzate in Italia e nel mondo: basta vedere quante mostre ha tenuto in Italia, in Europa, ovunque. Anche per questo, da un pezzo, è nella “scuderia” della Contini Cotemporary Art Gallery.
Com’è nata la sua passione per la pittura? Qual è stata la… scintilla che ha acceso l’artista?
“C’è una gran differenza tra il praticare una disciplina artistica, come la pittura, ed essere un’artista. Disegnavo molto fin da giovanissimo, tutto qui; mi interessava catturare un istante, un’espressione, un qualcosa da “fissare”, da ricordare; un movimento, un’emozione…”.
C’è stato un momento, prima di diventare il Puglisi di oggi, nel quale le difficoltà, gli ostacoli stavano per farle gettare la spugna?
“Chiariamo subito che anche il Puglisi di oggi è lontano dalla fama e dal successo; ho il mio “mercato”, certo, ma la strada è ancora lunga. L’unico vero successo di questo mestiere, secondo me, è arrivare a farlo. Tornando alla domanda: per quasi dodici anni non ho venduto un solo quadro. Poi, lentamente, questa pittura particolare e in qualche modo “nuova” ha iniziato a farsi notare. Il primo risultato per un pittore, secondo me, è essere sorpreso da un proprio quadro, magari il giorno dopo averlo dipinto, rientrando in studio…”
Oggi i suoi lavori sono esposti in Italia e nel mondo. Prima di arrivare fin qui quante volte ha incontrato dinieghi, porte chiuse? Chi, invece, l’ha caldamente appoggiata?
“Sa una cosa? Non sono sicuro se veramente c’è del buono in quello che faccio; lo faccio e basta. Chi apprezza il mio lavoro? È stato apprezzato da bambini come da intellettuali, da critici d’arte e da semplici spettatori. E gli spettatori sono importanti. Come sono importanti gli studiosi, gli “addetti ai lavori”. Dovrebbe essere questo lo scopo dell’arte visiva secondo me: scuotere chi osserva, chiunque sia l’osservatore; lasciare una traccia, un’emozione, un pensiero nello spettatore. Senza chi la osserva la pittura non ha ragion d’essere. Un quadro può far sorgere dei dubbi, delle domande… Domande e risposte? Più che altro domande a cui non si sa rispondere…”
Come nasce il suo stile?
“È partito tutto raffigurando delle piccole teste; mi piaceva l’idea di tentare di ricreare un volto umano. Dapprima timidamente, verso una densità della figura; poi negli anni dal denso al più solido… La testa e le mani, in fondo, sono le membra dove la vita si manifesta, è più intensa. Sono le parti del corpo con cui comunichiamo, parliamo, progettiamo, sogniamo… Tutto è passato attraverso una lunga pratica, ispirandomi in parte alla pittura barocca, al seicento olandese per esempio”.
Cosa vuol trasmettere con i suoi dipinti?
“Sono sincero, l’unica maniera per “fare” pittura è quella di mettersi da parte e lasciare che qualcosa accada… Lasciar apparire una sorta di mistero dentro il quale rimanga, non so come, una scintilla, un alito di vita”
La fortuna incide, ha inciso nel suo percorso?
“Bisogna accettare quel che la vita ti riserva. Certo, passare dall’anonimato alle pareti di una galleria prestigiosa non è facile; ma se ti impegni, se credi in te e nel tuo lavoro, qualcuno se ne accorgerà. È andata così anche con Cristian Contini e Fulvio Granocchia, che ho incontrato ad una fiera d’arte. Siamo entrati in sintonia, hanno creduto nella mia pittura, l’hanno proposta ad un pubblico internazionale; abbiamo anche stampato una monografia sul mio lavoro edita da Prearo Editore per la prestigiosa collana Atlanti, diretta da Tommaso Trini: nell’arte contemporanea Prearo Editore è un’istituzione”.
L’artista e il mercato; due mondi apparentemente distanti. Come si conciliano?
“Fare come l’eremita che vuole vivere sulla montagna senza relazionarsi con il mondo è una cosa facile… Il difficile è stare “in piazza”, tra la gente, nel mondo vero. Perché come ho già detto l’arte è al servizio di chi la osserva, la vive. Le emozioni sono per chi la crea e per chi la guarda. Picasso diceva che il pittore deve avere successo; senza successo non si può fare il pittore. Ergo, prima o poi il mercato devi incontrarlo, conoscerlo, affrontarlo. E in una galleria come Contini Contemporary ci si propone ad alto livello su un mercato internazionale di prestigio. Se non hai una quotazione non esisti. e quindi non puoi continuare a dipingere a tempo pieno…”