ARTE E CULTURA: “Oriente, Occidente e Mediterraneo”

“Oriente, Occidente e Mediterraneo: i colori di Irem”

 

Si dice “figlia d’arte” e in questo caso è più che appropriato: Irem Incendayi è la figlia di Timur, noto pittore turco trapiantato a Roma. Lei è nata nella Città Eterna maneggiando, fin da piccola, colori, pennelli, tele e colla. Parlando con lei ci addentriamo in un mondo che credevamo senza segreti, ma…

 

L’artista, quello che si rinchiude nella sua torre, nel suo studio immerso nel caos e nella polvere dove ogni cosa è al suo posto e non si trova niente. Si trova solo l’odore stantio dei colori essiccati sui pennelli induriti, le tele appoggiate alla rinfusa lungo le pareti o addirittura accatastate una sull’altra (la più recente, probabilmente, è quella più in basso). L’artista parla poco, esce di rado e quando lo fa si sente come un pesce fuor d’acqua: il mondo non lo capisce; oppure l’ha capito e non gli piace. Preferisce dipingerlo, insultarlo a colpi di colore o modellarlo – come lui lo vede – a scalpellate. L’artista è scostante, solitario, diciamo pure misantropo.

Per esempio Caravaggio, che amava alternare il pennello con il coltello (da affondare, quest’ultimo, nelle carni di chi lo faceva arrabbiare); oppure Pollock, che imbrattava le tele a secchiate concedendosi lunghi break alcolici per poi riprendere con il “drip painting”. Potremmo proseguire con Van Gogh, con Picasso, saltellando avanti e indietro nei secoli per rafforzare il sempiterno luogo comune che vede l’artista come una creatura a sé che ti guarda dall’alto e che, soprattutto, non si appassiona più di tanto agli “affarucci” umani: il lavoro, la famiglia, i malanni, le guerre… Cose da ometti senza infamia e senza lode.

Fermiamoci qui. Ci fermiamo perché incontrando Irem Incendayi siamo costretti a distruggere tutto quanto scritto finora: Irem è una donna, anzi una ragazza che cerca di convincerci di essere nata nel 1970; alla fine le crediamo anche perché, si sa, gli artisti non possono somigliare troppo a noi comuni mortali… Una ragazza in camicia e jeans, una donna con gli occhi chiari fino alla trasparenza che sembra talvolta più italiana degli italiani e più romana dei romani; per come parla, per come ride, per come capisce al volo i nostri gesti. Ma se improvvisamente volassimo dall’altra parte del mare ci accorgeremmo di quanto Oriente ci sia nei suoi ricordi, nelle sue emozioni; e nella sua arte. Un’arte che vive di mescolanza; mescolanza di forme e di culture, di passato e presente, islamismo e classicismo… Calligrafia e giochi cromatici, luci e ombre costruite rigorosamente con terre naturali per ottenere tutte le tonalità, tutte le “grida” che un dipinto può lanciare a chi lo osserva.

Come è nata questa sua passione?

“Sono cresciuta nello studio di mio padre; ci passavo tutto il tempo che potevo, fin da piccolissima. Tornavo da scuola, mi piazzavo vicino a lui e non mi muovevo più: nello studio facevo anche i compiti. Poi leggevo tanto, in biblioteca o altrove. Così ho scelto il liceo artistico e poi architettura, che in seguito ho lasciato per diplomarmi all’Accademia delle Belle Arti. Insomma, la strada era segnata; una strada che ho scelto senza alcun ripensamento”.

La “scintilla” che ha trasformato la passione in… professione?

“L’ho già detto: quando ti piace qualcosa, quando senti di esprimere te stessa dipingendo, dando forma alle emozioni, ai ricordi o – perché no – alla rabbia, capisci che la tua vita è quella, punto. La professione? Prima o poi ci si arriva: vai in giro con i quadri sottobraccio, chiedi, insisti, finché un gallerista ti dà retta, ti incoraggia, ti lascia entrare…”

La prima mostra. Come si fa ad arrivarci?

“Già al liceo (o all’Accademia) i docenti ti aiutano con i contatti, ti presentano in giro; specie se credono in te, se apprezzano quello che fai. A me hanno portato fortuna anche i trompe-l’oeil, che anni fa andavano di moda: li realizzavo con una mia amica a richiesta nelle case, ovunque ci chiamassero. Un’ottima palestra; e un ottimo modo per far circolare il mio nome”.

Quando e come ha scelto il suo stile?

“Ci si arriva passo dopo passo; anzi, lo stile si cambia, si abbandona e poi si riabbraccia. A un certo punto ti accorgi di essere arrivata dove volevi; riconosci il colore, i contorni, le ombre. Riconosci te stessa”.

L’arte, come tutte le cose, ha anche un prezzo. Come si stabilisce? Lei che criteri usa?

“In realtà esiste un metodo “ufficiale”: si somma la base all’altezza del dipinto e il risultato si moltiplica per il “coefficiente artistico” che ogni pittore detiene (fissato dai galleristi, dal mercato). Per quanto mi riguarda, il prezzo spesso lo fisso in base a “numeri” più intimi, più personali. E mi va bene così”.

Difficile crescere artisticamente a Roma?

“Facile non è: i galleristi non aprono volentieri ai “nuovi”, non vogliono rischiare. Bisogna insistere, mai perdersi d’animo. Vale per Roma e per l’Italia tutta. Per una recensione talvolta bisogna pagare il critico; i critici più quotati, senza fare nomi, non si muovono per meno di 10-15 mila euro…! E non tutti sono competenti e preparati”.

Vero: chi non ricorda i falsi di Modigliani negli Anni 80? Ci cascarono in tanti, migliori compresi. Noi siamo buoni e, come Irem, non facciamo nomi.

Un consiglio ai giovanissimi che vogliano prendere la sua stessa strada?

“Seguite le vostre passioni: bisogna fare sempre ciò che ci rende felici, a costo di scontrarsi con la famiglia, gli amici. Perseverare, inseguire il sogno. Ma c’è una regola: restare con i piedi per terra, sempre”.

È quello che ha fatto Irem; ed è quello che continuerà a fare. Al suo attivo, per ora, vi sono numerose mostre a Roma, personali e collettive, ma anche altrove, Los Angeles compresa. Le chiediamo, in ultimo, se non sarebbe una buona idea un talent show per lanciare nuovi artisti. Risposta affermativa, senza alcun dubbio.

Altro che torre d’avorio; altro che artisti fuori dal mondo: Irem è tra noi; cittadina, come noi, del mondo d’oggi.

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